rabbiaLa settimana scorsa in una trasmissione radiofonica che si occupava del caso di Sara (la ragazza uccisa dal suo ex fidanzato), una rosa di esperti e di professionisti si rimpallavano la questione tra cultura, educazione, leggi, denunce e prevenzione. Un radioascoltatore, intervenuto telefonicamente, ha suggerito l’ipotesi che potesse, in qualche modo, c’entrare la famiglia, intesa come esperienza principale nello sviluppo della personalità. La conduttrice si è limitata a dire: “Molto interessante, la sua osservazione, meriterebbe sicuramente un approfondimento”. E poi si è continuato a parlarne, come se le persone e le loro azioni fossero indipendenti dalla loro storia biografica o dal loro status emozionale. Non voglio qui sostenere che basti un trascorso problematico per creare dei violenti o dei potenziali omicidi. La spinta della vita verso il bene e le infinite combinazioni di fattori lasciano sempre aperta la possibilità di ritrovare un proprio equilibrio e la capacità di evolvere verso la propria maturità e quindi la responsabilità delle proprie decisioni. Quello che è altrettanto certo, però, è che dietro ogni atto di brutalità c’è sempre una condizione di vita estremizzata, accompagnata da emozioni in eccesso, come rabbia e paura, verso di sé e verso gli altri. Non esiste un pensiero, una ideologia, una religione capace di generare una azione senza chiamare in gioco il proprio vissuto emotivo e quindi senza chiamare in gioco la propria esperienza di vita. Così come non esiste stato di quiete e di benessere psicofisico vero in una condizione esistenziale che riproduce, in modo del tutto inconsapevole e automatico, pensieri, emozioni e comportamenti contro natura, dandosi per credibili e per “normali”. Ovvio che per uscire da questa spirale occorre riconoscere questo meccanismo e le sue implicazioni e, soprattutto, occorre presupporre che l’uomo sia nato per crescere ed evolvere verso l’amore, la relazione, lo scambio, così come sia fatto per stare, e vivere, in salute. Il salto è, a dir poco, “quantico”, nel senso che, non contemplando questa condizione potenziale, non si può nemmeno ipotizzare che con il nostro modo di intendere e praticare la vita, si stia, di fatto, ostacolando il suo realizzarsi; che in ogni luogo dove viene tramandata e insegnata la vita – e torniamo di nuovo all’esperienza, ma anche ai principi, ai valori, ai comportamenti trasmessi – in realtà, viene proprio impedita l’affermazione del bene, e quindi della salute stessa. Non ci vuole molto per rendersene conto. È tutto così semplice da non sembrare nemmeno possibile e vero, per come abbiamo complicato le cose. Eppure basta risolvere un conflitto, lasciar andare il rancore, smetterla di giudicarsi, sdrammatizzare una situazione, per vivere meglio, con più leggerezza e allegria; basta amare e sentirsi amati per provare un senso di complicità, di solidarietà, di sottile e immenso piacere; basta mangiare un po’ meglio fare dell’attività fisica per accorgersi di essere più vitali e prestanti.

L’osservazione sulla famiglia, di cui sopra, non è tanto diretta specificatamente alle persone o all’idea di scaricare sui genitori la responsabilità di non avere scongiurato il peggio ma, piuttosto, sull’inconsapevole ruolo di trasmissione di questa aberrazione del vivere dei quali siamo, prima di tutto, vittime, e poi responsabili.

Se l’errore e l’alienazione sono così generalizzati, cosa possiamo aspettarci dalle analisi degli osservatori, dalle dichiarazioni dei politici ma anche dalle nostre considerazioni, se non quel poco che risulta spiegabile e comprensibile da questa logica distorta dalle nostre stesse emozioni? Per comprendere veramente il fenomeno della violenza, in ogni dove e in ogni ambito, ma anche per riconoscere come siano compromesse le nostre condizioni di salute e di vivibilità sociale, dobbiamo prima di tutto riconsiderare e riconoscere la vita nella sua essenza e nella sua totalità. Tutta la riflessione che nasce da questa cultura malata non può che essere a sua volta malata, o comunque parziale, non in grado di comprendere le ragioni profonde degli accadimenti, nel loro generarsi e nel loro manifestarsi. Ci vuole una rivoluzione culturale della coscienza individuale che, presumibilmente, è nel segno dei tempi e, al riguardo, molti fatti apparentemente caotici e destabilizzanti, sono una prova di ciò, così come lo è tutto un fermento intorno a questi temi. Io penso che il mondo non stia attraversando una crisi economica o un nuovo fenomeno di migrazione, ma che stia attraversando una crisi molto più profonda, che ha radici e spinte a partire proprio da questa lettura e pratica della vita. E questo non è male, anche se dipenderà da noi, e di nuovo dalla nostra coscienza, trovare i modi per cambiare senza cedere alla rabbia e alla paura e, quindi, senza ricorrere alla violenza. Sarà questo a dirci del livello di civiltà e di consapevolezza umana raggiunto!

Renato, per dirmi del suo ritrovato “senso di vivere”, mi scrive: ”Ho notato, parlando con le persone che incontro, che si sta diffondendo sempre di più la presa di coscienza sul benessere psicofisico, in senso olistico. Auguriamocelo davvero tutti!