Quando ho cominciato ad allargare il mio sguardo sulla realtà, a vedere oltre l’apparenza, a capire cosa si celasse dietro un comportamento, un’emozione, un pensiero, una convinzione, ma anche a capire la causa e il significato della sofferenza, ricordo il mio sbigottimento, che motivavo dicendo: “Io non riesco a giudicare più niente e nessuno”. Ma, col senno di poi, devo dire che è stato l’inizio di una liberazione. Una liberazione per me, certamente, che però penso sia potenzialmente alla portata di tutti, pur necessitando di un cambio di visione e di interpretazione del proprio stato emozionale, per far si che emergano quei fattori scatenanti che hanno originato la nostra ipotetica condizione di disagio. Come a dire che tutto si relaziona alla nostra specifica suscettibilità, che non esula dal nostro vissuto; come a dire che siamo noi a dare peso e significato a ciò che ci succede. Se fossimo capaci di riconoscere e vedere questo indiscutibile legame avremmo tutto l’interesse a “lavorare” sulla nostra suscettibilità e sulle emozioni che ne derivano e ne conseguono. Se fossimo capaci di vedere questo come l’inevitabile conseguenza di un vissuto e di un condizionamento tale da alterare la nostra percezione, tale da farci credere di essere quella suscettibilità così erroneamente distorsiva, se fossimo capaci di vedere, in un colpo solo, la grandezza della vita, il pulsare dell’energia che anima ogni cosa e non discrimina tra buono e cattivo, tra capace e incapace, tra meritevole e immeritevole, ebbene torneremmo, in poco tempo, tra le braccia dell’immenso, della quiete, dell’imperturbabilità. O quanto meno non vivremmo una vita in totale balia degli eventi e delle emozioni del nostro vissuto, a partire dal peso/significato che rappresentano nel nostro inconscio. Tutto è riconducibile a questo meccanismo perverso, fintantoché (com’è successo a me), per qualche ragione, più o meno ignota, s’intuisce, si scopre, questo equivoco e questa dipendenza, e si ritorna a vivere di piccole azioni quotidiane correttive, animate, questa volta, dalla consapevolezza e dal piacere di questa scoperta. Che è il potere della coscienza, della capacità di pensarsi, di essere e di agire in nome, e in fede, della nostra natura e della nostra “onnipotente” capacità di riscattare quegli equivoci che hanno generato in noi una palese dipendenza. Questo “lavoro” non è gratuito e scontato, ma necessita di riflessione, cambio di visione, riscontro e, molto spesso, di aiuto nella sua impostazione e avviamento. Ma, come ripeto, è assolutamente alla portata di tutti, per la semplice ragione che è il senso stesso dell’esistenza umana. È un percorso obbligato che, prima o poi, dovremo intraprendere tutti, pena una vita trascorsa in quella dipendenza emotiva che c’indurrà a ripetere all’infinito gli errori già commessi, giustificandoli e motivandoli con un qualsiasi capro espiatorio in grado di soddisfare il nostro stato illusorio, che ha coperto la nostra coscienza.
“La quiete e la tempesta” di cui parlo sono esattamente le metafore di questa dinamica: la tempesta è la risultante della nostra suscettibilità emotiva, in quanto prerogativa dell’inconscio, mentre la quiete è lo stato naturale di imperturbabilità che si raggiunge solo attraverso la presa di coscienza, a governo della nostra personalità.
L’imperturbabilità non viene dalla forza di volontà, grazie a un’azione auto coercitiva: se fosse così basterebbe la razionalità o la minaccia delle pene e delle punizioni. Ma viene solo da una ridefinizione di sé, da un’espansione della coscienza, contenuta nella nostra dimensione spirituale. E qui dobbiamo metterci in gioco, dobbiamo decidere di sperimentare nuove vie e nuovi modi di essere, alla scoperta di qualità che devono solo essere rivelate. Una rivelazione che è già scritta nella potenzialità della nostra natura e del nostro cervello, ma che può manifestarsi solo attraverso l’esercizio di nuove esperienze. Per questo abbiamo bisogno di continue sollecitazioni, chiamiamole pure “problemi”, perché solo attraverso di essi riusciamo a migliorarci e ad evolvere: quelli che comunemente definiamo problemi, in realtà, sono messaggi, e ancor di più, opportunità.
Il pericolo vero (come di fatto sta accadendo nel buio coscienziale imperante) è non riuscire a cogliere queste occasioni, lamentandoci e cercando di non affrontare il “benefico messaggio” di disagio che sta chiedendoci di cambiare, per evitare di cadere all’infinito nello stesso errore, nella stessa traccia, nella stessa risposta. Allora non c’è apprendimento, non c’è evoluzione, ma solo sofferenza e difficoltà, personali e sociali. Nel mio nuovo libro – Codice Vitariano – ho cercato di raccontare questo processo, questo “lavoro”, proponendo sia la necessaria riflessione a ridefinire il campo e la visione, sia gli strumenti utili all’azione e alla sperimentazione personale. Il mio intento è di contribuire, senza vanto e senza lode, alla ricerca personale di ognuno, per far si che nasca in ogni persona quella particolare consapevolezza che rende partecipi del meraviglioso spettacolo della vita, quando è vissuta nell’equilibrio e nel rispetto dei suoi principi naturali.