Questa mattina con il mio amico Enrico, intorno ad alcune battute sul trascorrere veloce del tempo, abbiamo riportato alla memoria la nostra infanzia, l’innocenza di quegli anni trascorsi senza la presenza della televisione h24, quel vivere di ritmi, riti e giochi dove era possibile immergersi totalmente nel “fare”, nell’essere presenti. La natura, la strada, la piazza, erano il set cinematografico di riferimento, il luogo fisico dell’azione. Che si trattasse di costruire una capanna, di essere cowboy, indiani o centurioni romani, di portare a spasso un cerchione di bicicletta con una forcella di ferro, del salto della corda, di agguerrite “competizioni” con biglie di vetro o figurine di calciatori non faceva differenza: l’importante era essere protagonisti. Eravamo lì, con tutto noi stessi, non c’era tempo rubato, c’era solo tempo vissuto. Non credo proprio che fosse solo una questione di età. Certo, anche allora, sentivamo dire dai “grandi” che poi le cose sarebbero cambiate; anche allora, la responsabilità, il lavoro, la famiglia, erano aspetti che riempivano e velocizzavano la vita, ma niente a che vedere con le accelerazioni e le tecnologie alienanti di adesso. È significativo sentire i ragazzi di oggi lamentarsi e sorprendersi della velocità del vivere, ma è ancor più drammatico vedere la virtualità di cui si è riempita la loro vita.
Quel rapporto con la natura, con la terra, con le persone fisiche, quel mondo che aveva tempi e luoghi “solo” vissuti intensamente, non c’è più. Quel mondo aveva leggi e usanze sicuramente più umane. Non era certo privo di insidie e minacce, di disparità, discriminazioni e sofferenze, ma è innegabile che, alla resa dei conti, quella che oggi osanniamo come civiltà del progresso e del benessere, alla fine sta mostrando la sua vera faccia con tutte le sue lacune e punti deboli.
Ed è stato proprio il coronavirus a strappare il velo delle illusioni, a metterci difronte ad una verità che continuiamo a non vedere e a non capire. Un’occasione eccezionale (quante ne avremo ancora non ci è dato di sapere) per riflettere sul senso stesso della vita, sul nostro destino, su quello dei nostri figli e dell’umanità intera. Come disse Jaques Prevert: “Più tardi sarà troppo tardi. La nostra vita è ora”.
Adesso è il momento di recuperare quell’intelligenza che ci riporta alla realtà di ciò che siamo, consentendoci di capire ora (non domani) l’indissolubile legame che abbiamo con l’ambiente terreno che ci ospita. E sarebbe opportuno che anche la politica trovi l’occasione, o forse il coraggio, di programmare un futuro all’insegna di quella qualità biologica che determina la salute di ogni persona, partendo proprio dal mantenimento degli equilibri fondamentali della vita umana (con in testa l’alimentazione), a prescindere da qualsiasi urgenza o contingenza che in futuro si manifesterà.
Staremo a vedere se qualcosa è passato al di là della logica del terrore, dell’informazione confusa e contradditoria, degli interessi e dei privilegi di potere.
In ogni caso, ognuno di noi, può fare (dovrebbe fare) la sua parte: informarsi, riflettere, prendere coscienza, scegliere. Non è un’operazione facile, considerato il generale disorientamento e condizionamento che si è diffuso. Rendersi conto di quello che di buono si è perso del passato, capire le implicazioni profonde di quello che è successo e sta succedendo nel presente, agire di conseguenza con responsabilità e consapevolezza nelle scelte di tutti i giorni ha il duplice vantaggio di salvarci da una subdola schiavitù e dalla sofferenza che ne deriva, tornando, una volta per tutte, ad essere partecipi della vita e dell’umanità. Si tratta “solo” di imparare a vivere a favore della salute, dell’amore, della consapevolezza di sé e degli altri.