Provo ad avventurarmi in un argomento delicato, con l’unico scopo di alimentare una riflessione. Premetto che gli argomenti che affronterò non vogliono, né sottovalutare gli aspetti materiali dell’esistenza, né tantomeno, banalizzare una situazione di difficoltà economica in cui versano molte persone in questo periodo. Però, c’è un però. Quando chiedo alle persone cosa sia la cosa che ritengono più importante nella loro vita, nella maggioranza dei casi, la risposta è la salute. Qualcuno si azzarda a dire “i soldi”, ma difronte alla domanda: cosa te ne fai dei soldi se non hai la salute? ritratta immediatamente la sua risposta con un timido “Ah sì, è vero!”. Eppure siamo tutti inglobati in un sistema socio-economico che ragiona solo in termini di iper-produzione, totalmente incurante dei ritmi naturali della vita umana, fondati su una centralità biologica insindacabile.
Questa mattina, mentre pensavo a cosa avrei potuto scrivere intorno a questo tema, mi sono tornate alla memoria certe situazioni: alcune personali, altre esterne alla mia vita, ma comunque rappresentative della civiltà e dell’economia che stiamo vivendo.
Pensavo ad un mio caro amico, deceduto all’età di 57 anni, e a ciò che mi disse sua moglie quando andai a farle visita: “Lo ha ucciso il suo lavoro”. Non di meno mi aveva turbato, qualche mese fa, la prematura scomparsa di un conoscente, visto qualche ora prima della sua dipartita, in apparente stato di forma: persona affermata professionalmente ed economicamente. A nulla erano valsi il suo successo e la sua ricchezza. Poi ho pensato all’Ilva di Taranto, chiedendomi che senso potesse avere un posto di lavoro di quel tipo, uno stipendio, forse buono o forse modesto, quando c’è in gioco la salute delle persone, magari di un’intera comunità. Bisognerebbe chiederlo a chi ha vissuto, di persona, il dramma della perdita di un suo caro, per cause professionali. Da lì a pensare a un’economia che fa scempio della vita, dell’ambiente, della salute della gente, il passaggio è stato immediato e mi sono chiesto come si può essere insensibili a tal punto da decidere di servire un’economia priva di coscienza? Certo se non si ha di che vivere si accetta di tutto: è comprensibile. Ma bisogna sopravvivere al lavoro, altrimenti trascuriamo la priorità della vita stessa, che è la salute. Senza salute si muore. O perlomeno si muore prima.
Forse sto dicendo delle cose banali, che sappiamo tutti, ma forse c’è bisogno di uno sforzo mentale capace di risvegliare la coscienza, per realizzare quel cambio di visione che ci consente di riscoprire un’intelligenza fatta di consapevolezza e responsabilità nei confronti di noi stessi, della nostra vita, che è solo una.
Il passaggio che il coronavirus ha messo in luce, è un’occasione che non possiamo trascurare, come abbiamo sempre fatto, alienando e sacrificando la nostra vita ad un’economia senza rispetto, senza amore, rassegnati all’idea di “non ritorno”.
Ho molto rispetto per chi ha perso la vita e per chi ha perso il lavoro in questo frangente, ma penso che il coronavirus abbia dimostrato a tutto il mondo, che invece possiamo tornare! Possiamo tornare ad essere persone integre, possiamo cambiare il nostro modo di pensare, il nostro umore, i nostri comportamenti; possiamo mangiare bene, essenziale; possiamo muoverci anche in poco spazio, possiamo lavorare per creare un’economia senza esclusioni, che sappia recuperare equamente sé stessa senza compromettere la nostra salute. E, lasciatemi dire, abbiamo imparato che nessun computer può sostituirsi al valore di un abbraccio, perché non c’è alternativa al contatto umano. Insieme possiamo cambiare il mondo.