Qualche giorno fa, ho assistito a una conferenza, a Trento, dal titolo: “Oltre la società del rancore – I dati per capirla, le idee per curarla”. Il relatore era Massimiliano Valerii, attuale Direttore del Censis (Centro Studi Investimenti Sociali). Proprio perché il Censis svolge da oltre cinquant’anni una costante e articolata attività di ricerca in campo socio-economico, l’analisi e le considerazioni erano particolarmente interessanti e autorevoli. L’esposizione, ricca di spunti riflessivi, ha disegnato con precisione e dovizia di dati, molti aspetti, di un prima e un dopo, la crisi del 2008; un prima caratterizzato dal boom economico degli anni ’60, dalla caduta del muro di Berlino del 1989, dalle sue implicazioni culturali in termini di aspettative, dinamica sociale e immaginario collettivo; un dopo che, dalla crisi finanziaria del 2008 ha, via via, infranto e destabilizzato ogni sogno di gloria e di speranza, con complicazioni e risvolti, in ogni ordine e in ogni ambito personale, sociale e politico. In un vuoto di progettualità e prospettiva nasce l’incertezza per il futuro e, di conseguenza, la preoccupazione per il proprio avvenire. Da qui la paura e la rabbia, sentimenti generalizzati che – come espresso da Valerii – sono le ragioni della società del rancore; da qui il bisogno di sicurezza e la necessità di stabilire precise responsabilità, nonché la necessità di individuare dei capri espiatori, tra Europa e immigrazione, per giustificare un sovranismo esasperato come unica soluzione alle preoccupazioni delle proprie paure e dei relativi disagi. Ma sono anche le condizioni che spiegano questo nuovo corso della politica: una classe totalmente impreparata a comprendere il fenomeno, perché più interessata, per ragioni di potere e privilegio, a cavalcare un’onda emotiva, piuttosto che a favorire un processo vero, autentico, trasformativo per una società e un’economia più evolute e rispettose della vita e dell’ambiente. Valerii ha concluso il suo intervento alludendo, giustamente, alla crisi come “opportunità”, e rimettendo al centro della questione e della riflessione, parole chiave come “desiderio”, “sogno”, auspicando un nuovo modello di sviluppo che affidi al cuore degli uomini, oltre che alla loro intelligenza, questa difficile prova di crescita e di evoluzione culturale.
All’impeccabile ricostruzione/descrizione di Valerii mi permetto di aggiungere alcune considerazioni che ritengo fondamentali. Penso sia indispensabile capire che, per innescare un processo di vero miglioramento sociale, è necessario riorientare la coscienza del singolo, col preciso intento di superare quello stato egoico/narcisistico, che si è instaurato nel cittadino in seguito alla sensazione di mancata protezione politico-economica che avverte su di sé. La crisi che stiamo attraversando non è finanziaria, economica o politica, ma è l’inevitabile conseguenza del tradimento e dell’inosservanza delle leggi della vita. Il successo e la dignità non possono essere misurati dalla crescita del PIL nazionale, dal benessere materiale o da una virtuale “ascesa sociale”, se i meccanismi o i parametri adottati sono a discapito della qualità e della durata della vita stessa.
La crisi è sì un’opportunità di ravvedimento, di rinnovamento culturale, sociale e politico, ma il cambiamento vero, il salto di qualità esistenziale, può avvenire solo attraverso un processo che coinvolga, dal basso, la coscienza personale. Il rancore vero alberga, prima di tutto, nella nostra mente, nella nostra esperienza di vita, nella nostra ereditata educazione e visione del mondo che, con il fattore delle circostanze esterne, non ha fatto altro che trovare legittimazione. Il paradosso sta nel fatto che ciò che siamo, ciò che pensiamo, si forma in una distorsione che noi stessi abbiamo creato, nostro malgrado. Il “cuore”, l’amore necessario, al quale si allude per costruire una nuova era, ha bisogno di nuovi orizzonti, di nuove visioni, di conoscenza e riflessione profonda, che tocchino le corde della spiritualità.
Senza queste condizioni, senza questa presa di coscienza, ci ritroveremo, come sempre, a fare i conti con i proclami, le intenzioni, e la nostra immaturità, restando inevitabilmente alla mercé di quelle paure e di quell’egoismo che sono sinonimo di paralisi e separazione pregiudiziale. La sfida, il compito della nuova politica è proprio quello di farsi portavoce di questa istanza, di questo processo, impegnandosi ad attuarlo.